Ho conosciuto Donatella Ruggeri, ux research e psicologa, su Linkedin. Da Linkedin sto raccogliendo suggerimenti di contatto. E tra i contatti Donatella mi è sembrata molto interessante per la sua voglia di divulgazione in un ambito molto interessante.

Donatella Ruggeri si occupa di UX Research ed è la fondatrice di due progetti molto interessanti secondo me. Il primo è Hafricah.net e il secondo è la settimanadelcervello.it di cui ho chiesto nell’intervista.

Ma ciò che mi ha maggiormente colpito di Donatella è l’interesse per le novità e la realtà virtuale come strumento per capire meglio il cervello umano e i nostri comportamenti.

Donatella Ruggeri UX Research

Su Linkedin Donatella si presenta come

Psicologa e comunicatrice seriale, nel 2007 ho fondato un sito di divulgazione neuroscientifica. Da clinica mi occupo di prevenzione dei disturbi cognitivi, riabilitazione neuropsicologica, da imprenditrice promuovo l’innovazione in ambito sanitario e sociale. Partner dell’americana Dana Foundation, dal 2016 coordino la Settimana del Cervello in Italia. Appassionata dei social e dalle nuove tecnologie, studio il comportamento e le personalità degli utenti sul web nell’ambito della User Experience.

Intervista a Donatella Ruggeri

Come sei venuta a contatto con l’User Experience, ce lo racconti?

Con la UX sono venuta a contatto – senza saperlo – durante il primo esame dell’università, Psicologia generale. Solo un paio di anni fa però ho incontrato uno UX designer. Ricordo di aver trovato illuminante e vagamente familiare ciò che diceva riguardo l’usabilità. Quando spinta dalla curiosità ho approfondito, ho scoperto di aver già nella mia libreria uno dei fondamenti della UX, La caffettiera del masochista di Don Norman, su cui avevo studiato le regole percettive e cognitive che stanno alla base delle nostre interazioni con gli oggetti della vita quotidiana.

Ho avuto la possibilità di iniziare a mettere in pratica le conoscenze in un continuo processo di affinamento by doing grazie al gruppo con cui lavoro adesso, iDIB, composto da designer (UI e UX), developer e researcher. Con loro ho potuto sperimentarmi in progetti molto grandi e già avviati ma ho potuto mettermi in gioco anche nella progettazione di un’esperienza d’uso from scratch, a partire dal primo contatto col committente.

Dalla psicologia alla UX Research, un passaggio naturale?

Secondo me di più: quasi un sodalizio inconsapevole. Uno psicologo è uno UX designer in potenza, ha tutte le conoscenze e gli strumenti di analisi, conosce la metodologia della ricerca, i principi che stanno alla base dello user testing e delle interviste, il metodo osservativo, la comunicazione efficace e non tecnica; è in grado di provare empatia e mettersi nei panni dell’altro con atteggiamento non giudicante; conosce la psicologia cognitiva e il funzionamento psicologico tipico.

Non a caso, nei corsi per UX designers sono molte le ore di insegnamento della psicologia, di aspetti che per uno psicologo sono fissati e consolidati da anni di studio e di lavoro sul campo, anche con i pazienti.

Contrariamente a quanto si creda, la psicologia e le neuroscienze che sono nello specifico il mio settore sono lo studio della normalità, del funzionamento psicologico e cognitivo sano. Va da sé che quando c’è da mettersi nei panni dell’utente, capire come pensa, quali sono le cose che provocano frustrazione, quali le aspettative, lo psicologo parte con una solida base.

Qual è la tua “giornata tipo” professionale?

La cosa bella è che la giornata tipo non esiste. L’unica routine è il caffè dopo pranzo, per il resto il lavoro è liquido e si adatta ai progetti, ai clienti, alle riunioni. Non manca mai il confronto col gruppo di lavoro o la lettura di un articolo di approfondimento su una nuova scoperta o tecnologia.

Quale parte del tuo lavoro preferisci?

La ricerca, in assoluto. È un ambito che ha sempre destato la mia curiosità e che mi dà modo di orientarmi nell’analisi di un problema e nel prendere decisioni. La prima cosa che mi viene in mente quando ho davanti qualcosa di nuovo: cosa sappiamo già, come lo abbiamo scoperto, dove lo abbiamo studiato, su chi, partendo da quali ipotesi? Come possiamo perfezionare i risultati? Ci sono domande migliori da porre?

Dalle neuroscienze alla UX, la ricerca consente di capire come funzioniamo in relazione a un compito. Quello che nei laboratori si studia a livello molecolare con la risonanza magnetica funzionale, in UX si studia nella sua complessità comportamentale e di pensiero con gli user test, le interviste, l’osservazione.
Una delle cose più interessanti è che la ricerca restituisce anche risultati controintuitivi ai quali non si sarebbe mai arrivati se non si fossero messe in dubbio quelle che all’inizio erano le proprie credenze – o assumption per usare un termine che fa molto UXer :-D.

Quali sono i tuoi strumenti di lavoro?

La cassetta degli attrezzi di uno ux designer che si rispetti è sempre zeppa di moltissimi tool… ed è sempre in continua evoluzione: alcuni tool vanno via e molti altri si aggiungono o si evolvono.

Se nella progettazione di un’esperienza utente non posso rinunciare alla ricerca, alla cosiddetta ‘UX dedotta’ – ossia quella ricavata da articoli, libri e dallo scambio con altri professionisti – e ancora, alle personas, al card sorting, giusto per citarne alcuni, nella divulgazione i veri strumenti diventano il networking e i social (sempre intesi come fitta rete di relazioni personali e di condivisione delle conoscenze che si creano), che consentono di portare il messaggio “un po’ più in là”.

Nel tuo blog/sito hafricah.net scrivi

L’ostacolo maggiore che le persone incontrano nell’approcciarsi ad un nuovo campo è difatti la non conoscenza del lessico tecnico proprio di quella disciplina.

A che punto siete?

Da ottimista direi a buon punto. Negli ultimi anni si sono moltiplicate, anche per la necessità di arrivare al cliente, le pagine di professionisti convertiti ai social che fino a pochi anni fa credevano che una pagina Facebook avrebbe influito negativamente sulla percezione di serietà e rigore della disciplina.

Nell’epoca del personal selling, però, in cui siamo a tutti gli effetti imprenditori di noi stessi, se non riusciamo a spiegare cosa facciamo è difficile vendere la consulenza, il servizio, la terapia. Da quel che vedo, siamo a buon punto. Chi ha cambiato linguaggio sta osservando buoni risultati, chi non sta cambiando linguaggio ne sta subendo le conseguenze e non credo avrà molta scelta, se vuole restare sul mercato.

Sia che si racconti la ricerca scientifica (come provo a fare proprio su hafricah.net) sia che ci si ritrovi davanti a un cliente a esporre i risultati di uno user test, se non si riesce a comunicare con semplicità, si auto-sabota l’outcome.

Altro tuo progetto è la Settimana del cervello. Come nasce la Settimana del cervello?

La Settimana del cervello nasce da un’esperienza all’estero. Quando vivevo in Inghilterra scoprivo che senza troppi preparativi, con un incontro informale in un pub segnalato su un giornale locale, ci si poteva incontrare, informare e contaminare. Ho seguito lí per la prima volta la Brain Awareness Week.

Tornata in Sicilia ho provato nel mio piccolo a introdurre questa modalità per portare la divulgazione delle neuroscienze nel mio territorio. Con grande sorpresa nei confronti di una regione in cui un movimento tale non si era ancora creato, ho trovato non solo professionisti entusiasti di raccontare il loro lavoro ma anche pubblici curiosi di scoprire di più sul funzionamento del cervello e sulla prevenzione delle malattie neurologiche.

Ricordo di aver pensato che c’era solo bisogno di dare il La: la curiosità e la voglia di imparare o di mettersi in gioco erano ben rappresentate. Da questa esperienza ed esperimento in piccolo, la Settimana del Cervello è diventata una manifestazione nazionale che oggi coinvolge 40 persone impegnate tutto l’anno nella sua organizzazione e circa 700 professionisti che organizzano i loro eventi divulgativi a marzo.

Sei impegnata nello studio di realtà virtuale. Io mi occupo di assistenza vocale e suoni. Che ne pensi? Quanto influisce il suono nella realtà virtuale? Puoi indicare qualche studio interessante a riguardo?

Quando vediamo un film che fa paura, nei momenti di suspence, per alcuni di noi il gesto naturale è quello di tapparsi le orecchie. Quando vogliamo rilassarci, possiamo riprodurre sul nostro telefono dei suoni della natura, del mare, della pioggia, per immergerci nel momento e immaginarci altrove.

Questi sono solo due esempi di come i suoni, anche da soli, siano importanti per il senso di presenza nel mondo, per l’immaginazione, per la risposta emotiva. Nella Realtà Virtuale, se il suono non rispetta le aspettative, se non sentiamo cioè quel che ci aspettiamo di sentire in base a quel che vediamo, alla posizione del corpo, alle informazioni che ci vengono dagli altri sensi e dall’apparato vestibolare, si crea una dissonanza cognitiva che rende l’esperienza irreale e anche fastidiosa.

Perché sia percepito come autentico, il suono deve avere delle proprietà fisiche il più possibile simili a quelle reali: profondità, volume, direzione, propagazione, responsività devono essere di buona qualità e coerenti rispetto al resto dell’esperienza. L’audio è il primo fattore che contribuisce alla credibilità di una esperienza virtuale.

Un articolo piuttosto recente spiega proprio come l’audio 3D realistico sia la frontiera della Realtà Virtuale.

Da quel che ho letto per questa intervista pare che in ambito psicoterapeutico ci sia molto ottimismo sulla realtà virtuale. E così? Come la vedi? Ci sarà anche un coinvolgimento di intelligenza artificiale? Oppure lo psicoterapeuta sarà sempre umano?

L’ottimismo della psicoterapia verso la Realtà Virtuale è vero e ragionevolmente indotto dai risultati degli studi condotti fino ad ora. La vera potenzialità della tecnologia consiste nel fare immergere il paziente in una situazione realistica che resti un setting sicuro. Le applicazioni sono molteplici, vanno dall’esposizione a stimoli fobici alla riabilitazione delle funzioni cognitive dopo una lesione cerebrale.

Il coinvolgimento delle intelligenze artificiali c’è già: Woebot è ad esempio un bot che fa le veci di uno psicologo. Aiuta a tracciare i cambiamenti d’umore, fornisce dei feedback sugli automatismi che per le persone spesso sono difficili da identificare, fa una sorta di “psicoeducazione”, cioè passa delle conoscenze su come funzioniamo.

A guardare poi le applicazioni del machine learning, è stato impiegato per perfezionare le diagnosi di psicosi, Sindrome di Alzheimer, autismo, per identificare il comportamento suicidario in base alle parole usate dalla persona, per analizzare i dati della risonanza magnetica funzionale.

Diciamo che tutto ciò che può freddamente essere osservato e analizzato da un umano, può essere osservato e analizzato anche meglio da una intelligenza artificiale. Il nodo al pettine viene se pensiamo alla componente emotiva della terapia, al rispecchiamento emotivo che avviene in seduta, aspetti che restano – ancora – solo un privilegio degli esseri umani, per quanto si sia già al lavoro sulle “intelligenze artificiali emotive”.

Ho visto che hai in ballo molti progetti di sviluppo. Qualche anticipazione? Novità che puoi già raccontare?

L’ultimissima novità, prossima al lancio il 30 giugno, è l’app di riabilitazione cognitiva in Realtà Virtuale, Cerebrum (ne ha parlato qualche giorno fa anche Repubblica) : che ho creato insieme ai colleghi romani di Idego e Promind, destinata agli operatori della salute mentale.
In cantiere abbiamo già un’estensione della stessa e diverse attività di formazione e supervisione per chi non ha familiarità con la tecnologia.

Siamo poi già al lavoro per la Settimana del Cervello che nel 2019 sarà dall’11 al 18 marzo e che vedrà diverse novità rivolte, ad esempio, alle scuole.

Questa estate lanceremo due servizi confezionati dal team di ricerca, sviluppo e progettazione col quale lavoro, servizi che utilizzeranno la realtà aumentata e l’intelligenza artificiale per risolvere due problemi comuni tra gli utenti, ma adesso non posso dire di più.

E per finire le ultime 3 domande più leggere, che faccio a tutti gli intervistati.

Consiglia un libro

Don’t make me think, Steve Krug. Contiene tutte quelle cose palesi e a volte un po’ ovvie che nessuno ti dice mai, alle quali non riesci ad arrivare da solo.

… un brano musicale o un cd

Al Monte, Mannarino (album)

Consiglia un film

Toys that Made us, più che un film è una serie di Netflix. Per imprenditori, designer e curiosi, è un condensato di materiale utile a crescere e a vedere come grandi marchi dell’industria del giocattolo (Barbie, Lego) sono diventati iconici e sono riusciti a superare gli inevitabili fallimenti lungo il percorso. Interessante soprattutto il modo in cui le aziende si sono adattate nei decenni restando al passo con un mercato e un cliente sempre diverso.

Ringraziamenti

Grazie ancora a Donatella per aver risposto alle mie domande e per aver dato a tutti i lettori spunti di riflessione molto interessanti. Il mondo sta cambiando e insieme ad esso il nostro cervello. Dobbiamo avere cura di persone come Donatella, che ci aiutano a capire.

Grazie e speriamo di vederci alla settimana del cervello 2019!