La coscienza di classe, in passato considerata una vera e propria bussola per orientarsi nella realtà sociale, è oggi spesso trascurata o fraintesa. Eppure, la sua importanza rimane intatta, se non addirittura rafforzata, in un contesto dove le disuguaglianze economiche e sociali sembrano aumentare. E il concetto di “popolo” viene svalutato in favore di una competizione individuale sempre più feroce.

In questo articolo vorrei indagare come e perché la coscienza di classe, intesa come consapevolezza dei propri diritti, delle proprie esigenze comuni e della propria posizione all’interno di una collettività, sia stata messa da parte. E magari se è necessario recuperarla per garantire un futuro più equo e solidale.

C’è stato un tempo in cui la parola coscienza di classe non era un tabù. Orientava chiunque desiderasse comprendere i propri bisogni e i propri diritti, non solo individuali, ma soprattutto collettivi, delle vere e proprie comunità.

E forse anche per questo i referendum sono destinati a naufragare.

L’evoluzione storica della coscienza di classe

Il concetto di coscienza di classe prende forma in epoca industriale, quando la divisione tra capitale e lavoro inizia a definire le sorti delle masse operaie e contadine. I primi movimenti sindacali e i partiti di ispirazione socialista e comunista utilizzarono questo concetto per dare voce a chi viveva condizioni di sfruttamento. La forza della coscienza di classe stava nella comprensione che i problemi individuali, come il basso salario, le pessime condizioni di lavoro, la mancanza di diritti, non erano casi isolati, ma riguardavano la maggioranza della popolazione, un popolo unito dagli stessi bisogni fondamentali.

Con il procedere del XX secolo, la coscienza di classe ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione di sistemi di welfare, nella nascita di tutele come la pensione, l’assistenza sanitaria, le ferie pagate, l’istruzione pubblica e così via. Tali conquiste, spesso date oggi per scontate, devono molto a una visione collettiva dei diritti e all’impegno costante di movimenti popolari che hanno lottato per estenderli a tutti.

Essere popolo per riappropriarsi dei diritti: una riflessione sulla coscienza di classe nell’era dell’individualismo

Oggi, ci troviamo al centro di una crisi, di una spaccatura, dove le comunità sono in crisi, dove siamo tutti connessi ma soli. Molti cittadini faticano persino a pagare le visite specialistiche, mentre hanno in tasca un iPhone di ultima generazione e sognano l’auto di lusso o l’intervento di chirurgia estetica.

La coscienza di classe che potrebbe essere una bussola pare che sia stata smarrita. La chiamavano coscienza di classe e, se oggi sembra fuori moda o relegata a un passato lontano, è proprio perché faceva paura a chi non voleva che ci riconoscessimo come comunità, come popolo.

La cancellazione del popolo e dei poveri dal discorso pubblico

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un preciso fenomeno culturale. Le parole “popolo” e “povero” sono state relegate a un ruolo marginale.

Quante volte vi capita di sentire nei media o nel dibattito pubblico il termine “popolo”? Raramente, e quando succede, spesso è in un contesto polemico, mai come nucleo essenziale di un discorso civile e politico.

Eppure, il popolo c’è, esiste e, anzi, oggi più che mai è una realtà viva, fatta di persone comuni, di maggioranze silenziose. Si parla ancora meno della “povertà”, come se non fosse un problema di tanti, quasi che nominarla fosse un atto di cattivo gusto. Invece, l’obiettivo di qualunque società democratica è – o dovrebbe essere – garantire il benessere e i diritti di tutti, a partire proprio da chi sta peggio.

Dai diritti ai privilegi: come è cambiato il racconto mediatico

A partire dagli anni Ottanta, è stato gradualmente inculcato il mito dell’individuo che può e deve “farcela da solo”. Il successo personale è stato trasformato in un valore assoluto. La ricchezza ostentata, la vita da copertina, il sogno del lusso e dell’esclusività hanno scalzato l’idea di un benessere condiviso. Non era importante pensarsi come gruppo, ma emergere dal gruppo; non era un valore conquistare nuovi diritti per tutti, bensì ottenere privilegi per se stessi. In un contesto dominato da modelli come il “tronista”, la “velina” o l’imprenditore di successo, si è costruita un’immagine di realizzazione individuale disgiunta dalla dimensione collettiva.

Basti pensare a quanto spazio mediatico hanno avuto figure come Berlusconi, Briatore o le varie star dei social, fino ad arrivare oggi all’oligarchia statunintense. Dagli stili di vita di questa oligarchia economica e oggi culturale, si è progressivamente veicolata l’idea che conti più l’opulenza di pochi che i diritti di molti.

È così che abbiamo accettato di ambire a privilegi (piccoli o grandi che siano) piuttosto che pretendere diritti per tutti. Il risultato? Tanti rimangono ai margini, nella speranza di entrare un giorno in quel cerchio ristretto di fortunati.

L’ascesa dell’individualismo: come ci siamo “dimenticati” di essere popolo

A partire dagli anni Ottanta, il paesaggio sociale e culturale in molti Paesi occidentali è stato caratterizzato dal trionfo dell’individualismo. Con l’affermarsi di nuovi modelli mediatici e l’ascesa di figure che ostentavano la propria ricchezza e il proprio successo personale, l’idea di comunità, di solidarietà e di condivisione di obiettivi ha perso gradualmente terreno.

Le storie personali di grande successo, raramente riproducibili su larga scala, hanno finito per occupare lo spazio narrativo e immaginario al posto delle vicende collettive, delle battaglie dei lavoratori e del popolo.

Anche l’idea di “popolo” ha subito una trasformazione: da soggetto politico portatore di diritti condivisi. L’idea di popolo è diventata una massa informe e senza dignità, da cui si voleva “emergere” a ogni costo. Le persone sono state spinte da un sistema mediatico ossessionato dall’eccezionalità e dall’esclusività, per mettere in secondo piano la difesa dei diritti di tutti a favore della rincorsa a privilegi individuali, percepiti come l’unico modo per “vincere” nella società.

Perché il popolo conta ancora (e perché occorre rivendicarlo)

Nonostante la narrazione dominante abbia provato a marginalizzare l’idea di popolo, i numeri e i fatti raccontano un’altra storia. Le disuguaglianze crescenti, la precarietà del lavoro, la difficoltà di accedere a servizi essenziali come la sanità e l’istruzione, colpiscono la maggior parte della popolazione, non solo le fasce più deboli. Ecco perché il “popolo” esiste più che mai, anche se si cerca di rimuoverlo dal discorso pubblico.

Riconoscersi parte di un popolo non significa rinunciare alla propria individualità o ai propri talenti. Anzi, implica la consapevolezza che la crescita e la realizzazione personale di ciascuno non possono prescindere dal contesto collettivo: se viviamo in una società più giusta, più equilibrata e più solidale, tutti possiamo ottenere migliori opportunità.

Rivalutare il concetto di popolo significa capire che la nostra unicità può esprimersi al meglio all’interno di un sistema di diritti condivisi e accessibili a chiunque.

Stare “larghi” nei diritti, come un grande cerchio che abbraccia tutti, permette a ciascuno di esprimersi nel rispetto e nella tutela della collettività. Al contrario, quando si vive in un sistema basato sui privilegi, il cerchio si stringe fino a includere pochissimi eletti: tutti gli altri rimangono fuori, a bussare a una porta chiusa.

La riscoperta della coscienza di classe

Riscoprire la coscienza di classe vuol dire, prima di tutto, mettere a fuoco i problemi reali che accomunano gran parte della popolazione. Non si tratta soltanto di redditi inadeguati o di una sanità che diventa sempre più onerosa per i singoli. Si tratta anche di un’idea di futuro, di progettualità e di equità. Significa chiedersi quale mondo vogliamo lasciare alle generazioni che verranno. Se un sistema con disuguaglianze abissali o una società che offre le stesse possibilità a tutti, indipendentemente dalla nascita e dal ceto sociale.

Riappropriarsi della coscienza di classe non è un atto nostalgico, ma un gesto politico e culturale. Vuol dire riconoscere che i diritti, a partire dalla salute, dall’istruzione e dal lavoro dignitoso, devono tornare al centro del dibattito pubblico. Significa anche ripensare il nostro ruolo come cittadini, superando l’idea che il benessere individuale sia necessariamente in contrasto con quello collettivo.

Al contrario, è proprio la dimensione comunitaria a creare la cornice entro cui ognuno può realizzarsi pienamente.

Coscienza di classe: un concetto mai davvero superato

Oggi, più che mai, è cruciale riprendere in mano quei concetti che hanno reso possibile il progresso democratico e sociale nel secolo scorso. La coscienza di classe è tra questi: non è sinonimo di conflitto eterno o di livellamento forzoso, ma è la capacità di comprendere come i propri destini siano intrecciati a quelli della collettività e come i diritti di tutti siano l’unica garanzia di una vita davvero dignitosa.

Essere popolo non significa uniformarsi, ma riconoscere la propria collocazione in un insieme di individui che condividono diritti, responsabilità e aspirazioni. Riconoscersi parte di un gruppo sociale non significa voler restare “massa indistinta” senza identità. Soltanto in questo senso, unendo la forza della moltitudine con la ricchezza delle singole personalità, è possibile costruire una società più giusta, in cui le esigenze della maggioranza non restino inascoltate e in cui anche i bisogni dei più fragili trovino risposte concrete. Riscoprire la coscienza di classe tra popolo e individualismo è dunque la sfida culturale del nostro presente, imprescindibile per assicurare un futuro migliore a tutti.

Riscoprire la consapevolezza di appartenere al popolo, nel senso più alto e nobile del termine, ci rende più forti, perché ci insegna a difendere i diritti comuni, quelli che permettono a ognuno di noi di vivere con dignità e opportunità.