Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, è un libro di Sherry Turkle, sociologa della Scienza e della tecnologia al MIT di Boston, che ho letto durante questa estate 2020.

Difficile sintetizzare il libro che parla, tra le tante cose, di come le persone, soprattutto giovani e ragazzi, si relazionano alle interfacce conversazionali, ai robot e ai vari dispositivi di intrattenimento.

La relazione con le macchine, anche se consapevole, modifica il nostro modo di pensare e di vedere il mondo.

Confessioni sincere

Il libro è davvero denso di spunti e di riflessioni. Inutile sarebbe riprendere concetti e storie che Sherry Turkle già racconta con molta professionalità. il mio consiglio è quello di acquistarlo e leggerlo.

Qui sul blog riprendo solo un paio di capitoli.

  • Confessioni sincere
  • La privacy ha una politica

Siti di confessioni

Sherry Turkle ha trascorso un po’ di tempo a leggere alcuni siti di confessioni. Si tratta di siti dove le persone, in forma anonima, raccontano i propri segreti. In particolare si parla di tradimenti, di amori inconfessabili, pensieri che non si possono dire pubblicamente.

Nel libro si parla di questi siti di confessioni presenti negli Stati Uniti, Ma il fenomeno esiste anche in Italia e i temi sono sempre gli stessi: segreti, tradimenti e tutte le declinazioni dei sette vizi capitali.

All’interno di questi siti possiamo trovare anche pensieri sparsi. Amori perduti, ritrovati, relazioni varie, dialoghi o discussioni tra congiunti, genitori, figli, parenti. Altri usano questi siti per esprimere la propria capacità di satira o per esercitare la propria ironia.

Solitudini in cerca di connessioni

Da quello che scrive Sherry Turkle questi siti sono un po’ più di un diario segreto. Sul proprio diario ciascuno poteva trovare uno valvola di sfogo che restava isolato e segreto, appunto.

Oggi, nell’era della condivisione e dei dispositivi mobili, queste confessioni vengono fatte online. I pensieri pubblicati, infatti, non restano isolati. Anzi. Sia che si scriva come autori, sia che si partecipa come lettori, ciascuno si sente parte di una comunità. Da autore ci si sfoga, da lettore ci si identifica nel dolore o nello sfogo altrui.

Il virtuale è reale

Ma non è tutto rose e fiori. Non ci troviamo dinanzi ad una terapia. Forse qualcuno potrebbe pensarlo. Ma così non è. E quello che diventa pubblico, anche coperto dall’anonimato ci colpisce e ci riguarda come fosse nella realtà.

Ce lo ricorda il decalogo manifesto di Parole o_stili che al primo punto recita

Il virtuale è reale.

Un punto su cui ormai tutti coloro che lavorano nella comunicazione si riconoscono, come racconta Annamaria Testa.

Su un primo punto sono tutti d’accordo: virtuale è reale. Le cose che succedono in rete non si verificano in un universo parallelo e separato dalle vite di tutti noi. La prima conseguenza è che sia le regole dell’interazione nel mondo virtuale, sia le loro conseguenze, non possono essere diverse da quelle che appartengono al mondo materiale. Sembra un’ovvietà ma non tutti lo sanno e molti se ne dimenticano. 

Spazio fisico e spazio virtuale

Tutto questo è chiarito dalla stessa Sherry Turkle che sottolinea e distingue la confessione che avviene in uno spazio fisico da uno spazio virtuale. Si tratta di un equivoco considerare i due spazi in egual misura.

Quando le confessioni avvengono in uno spazio fisico, reale, ci sono le parole e le negoziazioni. Possiamo ricevere dal nostro amico disapprovazione o accettazione. Ma per quanto dura da digerire, in una relazione umana sappiamo che l’altro può tenere a noi, tanto che abbiamo deciso di confessarci. Per cui anche la disapprovazione, è accettata, tanto più che conosciamo anche noi la fonte di questa critica.

Insomma, nelle confessioni di persona, per quanto il nostro interlocutore può essere rude, se lo abbiamo scelto per parlare, avrà sempre cura di noi. Nelle confessioni online, forse si riesce persino ad essere più sinceri, ma dall’altra parte la cura per la confessione e per la persona non esistono. Se ci può essere chi identificandosi in noi cercherà di capire e di immedesimarsi in quella confessione, ci sarà una massa di commenti e di opinioni che arriverà come una valanga e colpirà nell’intimo la persona che si è confessata.

La crudeltà degli estranei

I commenti, infatti, per quanto possiamo abituarci ci colpiscono emotivamente. E se da dietro uno schermo è stato più facile trovare una profonda intimità, da dietro lo stesso schermo siamo più vulnerabili. Appunto perché soli e la comunità non ci salverà.

L’anonimato, che permette la facilità di confessione non ci protegge dall’investimento emotivo.

Tanto più che dai racconti raccolti da Sherry Turkle si apprende che le persone sono maggiormente propense a scrivere online le loro confessioni quando sono depresse. Cosa che accade sempre più spesso.

I commenti non sono, dunque, sempre consolatori. Anzi feriscono e ci turbano.

Lo scrivere online conduce le persone a pensare di raccontare le proprie storie a persone che le amano, che gli vogliono bene, che ne hanno cura. Così non è. Ed è difficile difenderci dalla crudeltà degli estranei.

Raccontiamo le nostre storie, le nostre solitudini, le nostre frustrazioni. A volte persino i nostri più reconditi segreti, sperando che più forte sia il sentimento espresso più ci sia intimità con i nostri destinatari anonimi. L’internet ci da la possibilità di ricevere risposte multiple e partecipate. In parte è vero. Ma nello stesso tempo ci mette davanti alla crudeltà delle persone.

Chiacchiere senza emozioni

I giovani, parliamo di giovani statunitensi, ma probabilmente lo possiamo vedere anche tra i nostri giovani, prediligono sfogarsi su internet, sui social, esprimono la loro rabbia, i propri desideri, il proprio stile di vita. Preferiscono farlo davanti a perfetti sconosciuti. E in questo anche la confessione verso un robot non crea nessuna sorpresa.

La confessione o lo sfogo, in questo senso, se da un lato butta fuori un sentimento o una esperienza negativa, dall’altro lato, non richiede nessuno sforzo emotivo nei confronti degli altri. Nessuna scusa, nessuna ammenda, nessuna soggezione.

Su facebook ci si scusa molto, ma queste scuse restano online. Senza mai trovare vita nella realtà. Chi si confessa online crede di aver assolto al proprio dovere.

Parlare con le persone e parlare con un bot

Parlare è sicuramente un’ azione terapeutica. Lo sanno bene gli psicologi che del dialogo psicoterapeutico ne hanno fatto una professione. Se esprimiamo ed espelliamo i cattivi sentimenti, questi diventano meno tossici e più gestibili emotivamente.

Sherly Turkle sottolinea come nel tempo le persone si stanno abituando a parlare, nell’anonimato, a dei lettori sconosciuti, a confessare e sfogare le proprie emozioni pubblicamente, in maniera impersonale. Allo stesso tempo, le stesse persone cominciano a parlare tranquillamente con i bot. E questo perché in fondo, parlare con un bot assolve alla stessa funzione di far buttare fuori qualcosa.

Ma le due azioni, se nella realtà, sono completamente diverse, come abbiamo già detto, su internet si confondono.

Qualcosa che è meno di una conversazione comincia a sembrare una conversazione.

Tanto che dare sfogo ai sentimenti sta diventando la stessa cosa che condividerli.

C’è la possibilità, o il pericolo secondo altri, che chiacchierare con degli sconosciuti possa far sembrare bot e agenti online una bella compagnia. E c’è la possibilità che la compagnia dei bot online faccia apprezzare quella degli sconosciuti. Chiediamo meno alle persone e più dalla tecnologia.

Vulnerabili

Davvero costruiamo tecnologie che ci lasciano vulnerabili in modi nuovi?

Le parole e le persone che esprimono la loro opinione sui nostri sentimenti restano separati. E non solo perché la cattiveria esiste. E non solo perché ci si rivolge a gente anonima. Questo accade persino nelle bolle di cui facciamo parte. Accade anche sulle nostre bacheche, tra i nostri amici sui gruppi social o nelle comunità digitali di cui facciamo parte.

La risposta ad ogni nostra parola è ampia, ma solo chi ci conosce davvero ci parla come in presenza. Tutti gli altri ti daranno addosso senza nessun ritegno.

Il flaming

Chi non mai è stato vittima o partecipe ad una lite online? Chi non ha mai lanciato una provocazione, scritto un pensiero più estremista, o un po’ più sconclusionato del solito?

Sarà capitato a tutti di dover leggere la rabbia di qualche sconosciuto o di un conoscente che non prova a capire la persona, o come si è arrivati a scrivere quelle frasi. Ciascuno risponde, non in base all’altro, ma in base al proprio stato d’animo, in base al rapporto che ha con la sua realtà (che potrebbe essere all’opposto del commento) e/o in base al rapporto che ha con l’internet. E chi scrive cose oltraggiose non deve per forza essere anonimo. Molto spesso le persone minacciano o affermano frasi illegali, con il proprio nome e cognome.

Sui social vediamo, leggiamo e partecipiamo a scontri che si inaspriscono, spesso senza un valido motivo o senza un motivo apparente. Se scoppia un flaming (la fiammata, la lite online), spesso è perché manca una presenza fisica in grado di esercitare un’azione moderatrice e un chiarimento immediato.

Basta una parola infelice, un’ ironia incompresa, una battuta ritenuta più offensiva di quello che realmente era, una ripetizione fastidiosa, per far scoppiare una rissa virtuale, che, ripetiamo, ferisce emotivamente tutti i partecipanti come se fosse reale.

Emozioni e relazioni

Conosciamo bene tutti queste dinamiche. Sappiamo tutti che possiamo essere vittime o carnefici di questo meccanismo. Siamo un po’ tutti consapevoli che noi e i nostri amici possono essere coivolti in una litigiosità immotivata. Dovremmo solo per questo rinunciare ai social?

A quanto pare no. Tutti continuiamo a frequentare questi spazi virtuali.

Le persone tirano fuori il proprio privato e mettono la loro infelicità sul sito. Per questo motivo il mondo online è impregnato di emozione.

Sherry Turkle continua

Non a caso temi come l’aborto, l’abuso infantile, l’eutanasia, la violenza sulle donne, diventano argomento di scontro violento. Le persone investono emotivamente sui social il proprio essere e le proprie frustrazioni, in un meccanismo di difesa personale detto dell’identificazione proiettiva. Invece di affrontare le nostri questioni le proiettiamo sugli altri, dove possiamo aggredirle senza rischi. Così come chi è abitualmente arrabbiato percepisce il mondo come ostile.

E se questo botta e risposta è proprio delle relazioni familiari, la madre che critica il peso del marito, il figlio che tira la frecciatina alla madre, il padre che si scaglia contro la moglie per non aver educato il figlio o la figlia, su internet le emozioni si espandono all’inverosimile.

Non ci sono limiti alla rabbia, alla parola, nessuna barriera emotiva che ponga limiti e freni.

Conversazione con i robot

Qualcuno confonde la terapia con la confessione online e viceversa. Che sia chiaro, non lo sono.

La terapia cerca nuovi modi di affrontare conflitti antichi. La terapia funziona perché ci aiuta a capire quando stiamo proiettando i nostri sentimenti sugli altri mentre invece dovremmo riconoscerli come nostri.

I confessionali online possono funzionare come una scarica di benessere che distrae l’attenzione da ciò che occorre davvero a una persona.

Come la confessione online attrae, così attrae la conversazione con i robot. Qualcuno che tace vuole parlare. Usiamo siti confessionali e robot per alleviare le nostre ansie buttate fuori, ma spesso queste ansie restano incomprese. Usiamo sempre più spesso le nostre energie emotive su questo fronte e non sul fronte umano.

Non possiamo prendercela con la tecnologia. sono le persone che si deludono a vicenda. La tecnologia ci permette di creare una mitologia in cui tutto questo non conta,

Alla ricerca di comunità

Ed eccoci al punto che mi ha più colpito. In questo blog infatti, mi sono spesso occupato di comunità. E sempre mi sono allontanato fisicamente e geograficamente dai membri di associazioni a cui partecipavo e partecipo e tanto più la voglia di comunità è aumentata.

Perché ci si confessa con degli estranei?

In fondo non entriamo in contatto con persone che vogliono conoscerci ma bensì con persone che usano i nostri sentimenti e le nostre emozioni per non affrontare le loro.

La nostra condizione non migliora. Anzi. Può persino bloccare la nostra crescita personale, dato che abbiamo l’impressione di aver fatto già qualcosa. Ed in effetti chi si confessa si sente sollevato e meno solo.

Abbiamo bisogno infatti di fiducia tra fedeli e clero, abbiamo bisogno di genitori capaci di parlare con i figli, di figli che riceveno tempo e protezione per vivere l’infanzia. Abbiamo bisogno di comunità

Online questa sensazione di comunità è forte. Le comunità sono luoghi in cui ci si sente talmente al sicuro da accettare il bello come il brutto; nelle comunità gli altri ci sono vicini nei momenti difficili, quindi siamo disposti a sentire cosa hanno da dire, anche se no ci piace.

Definizone di comunità

Forse è necessari ripartire dalla definizione di comunità. E avere una definizione chiara da difendere con fermezza. Perché la nostra definizione, così come la nostra idea di comunità, più restrittiva o più ampia andrà a confrontarsi con le piattaforme e con la loro idea di comunità.

Secondo i gestori dei siti confessionali, il termine di comunità andrebbe allargato, come spazio e luoghi virtuale. Questo avviene.

Ma secondo Sherry Turkle la definizione deve rimanere quella etimologica di

“donare l’uno all’altro”.

I siti di confessioni, infatti, così come i social, hanno parametri che stanno al di sotto di una comunità.

Circoli

I luoghi che riunivano un gruppo di persone che condividevano un interesse comune si chiamavano circoli. Qui, nel paese dove vivo, ne sopravvivono ancora alcuni. C’è il circolo Garibaldi che riunisce i notabili del paese, il Circolo di cultura, la borghesia oggi in pensione, il Circolo l’Unione riunisce anziani operai con la passione delle carte da gioco e il desiderio di un loculo sicuro. Ma si tratta anche di associazioni di mutuo soccorso qualora ce ne fosse bisogno.

Una comunità è costituita dalla prossimità fisica, da interessi condivisi, conseguenze reali e responsabilità comuni. I suoi membri si aiutano a vicenda nei modi più concreti.

Devo dire che in questa definizione Sherry Turkle risulta un po’ troppo romantica. Questo forse accadeva appena dopo la seconda guerra mondiale. E forse accade in maniera molto blanda anche nel Sud Italia. Certamente non accade da tempo in epoca precovid. E non accade nelle città. Forse accadrà in futuro?

Sherry Turkle si chiede

Che debiti abbiamo, gli uni verso gli altri, nella simulazione?

E questo è vero. Ma se siamo costretti al distanziamento sociale e lo saremo ancora a lungo, una qualche soluzione la dobbiamo trovare.

Responsabilità

E noi come utenti o come produttori di contenuti, architetti dell’informazione o giornalisti o altra professione che si accosta in qualche modo al mondo dell’internet, quale responsabilità ci investe?

Secondo alcuni la pubblicazione di contenuti ha una relazione minima con la realtà. Qualcuno scrive solo per catturare l’attenzione degli altri, esaspera i propri racconti. Altri simulano atteggiamenti diversi dai ruoli che rivestono nella realtà. Altri ancora esagerano e simulano una vita che non hanno.

In tutto questo rincorrersi si fa comunque il gioco delle big company.

Qual è il significato di tutto ciò?

Poco importa se sia vero, anche se il vero ci interessa. Qual è il significato di tutto ciò? Le fantasie e i desideri contengono, infatti, messaggi significativi.

E qui Sherry Turkle sembra arrendersi, almeno dal suo punto di vista. Perché per comprendere il significato, al di là della verità, è necessario essere presenti, guardarsi negli occhi, essere in ascolto e vicini, per un dialogo forte.

Per il resto siamo e restiamo spettatori, nel migliore dei casi. O topi da laboratorio, nel peggiore.

Ci stiamo disabituando ai rapporti umani. E certo, il distanziamento sociale a cui il nuovo coronavirus ci sta abituando, non aiuta.