Da qualche tempo a questa parte, sembra che diventare “content creator” su piattaforme per adulti o intraprendere la carriera di sex worker sia diventato non solo un trend, ma un’opzione lavorativa considerata sempre più “normale”.
Ragazze e ragazzi, donne di qualunque età, uomini aitanti: in molti si lanciano in questo mondo, attratti dalla promessa di guadagni facili e dall’idea di una ritrovata libertà sessuale.
Ma è davvero così? O forse dietro questa apparente svolta “moderna” si nasconde l’ennesimo riflesso di una società che ha smesso di premiare il merito, la fatica e la competenza professionale?
Chi sono i sex worker?
Una (o un) sex worker è una persona che fornisce, in cambio di un compenso economico o di altro tipo, servizi o prestazioni di natura sessuale. Il termine “sex worker” è utilizzato in un’ottica di autodeterminazione e rispetto, evitando connotazioni stigmatizzanti. In concreto, le attività da sex worker possono includere diverse forme di intrattenimento o prestazioni:
- Servizi di compagnia (escort, accompagnamento a eventi o cene);
- Contenuti per adulti online (foto, video, streaming live, spesso su piattaforme specializzate);
- Lavoro in locali come strip club, chat erotiche o telefoni erotici;
- Prestazioni sessuali di vario tipo, con clienti che pagano per incontri fisici diretti.
È importante sottolineare che il concetto di “sex work” si fonda sul riconoscimento della libera scelta (laddove effettivamente presente) e mira a sottolineare la necessità di tutele legali e di diritti umani, a prescindere dal giudizio morale sulla professione.
Tuttavia, il settore può comprendere situazioni di vulnerabilità o sfruttamento, ed è proprio per questo che molte organizzazioni e attivisti si battono per la regolamentazione del lavoro sessuale e per la protezione di chi lo svolge.
L’ascesa dei sex worker
La diffusione del sex work affonda le proprie radici in una combinazione complessa di fattori, che vanno dalla precarietà economica all’evoluzione degli atteggiamenti culturali. Le difficoltà del mercato del lavoro, caratterizzato da bassi salari, contratti instabili e disoccupazione, spingono molte persone a cercare fonti di reddito alternative e più immediate.
In questo clima di incertezza, il lavoro sessuale può apparire come una scorciatoia attraente, soprattutto perché, grazie a internet, la disintermediazione consente di raggiungere direttamente il pubblico pagante. L’ascesa di piattaforme online e social media ha facilitato la creazione di un mercato globale in cui la promozione di contenuti erotici e la vendita di servizi sessuali possono generare profitti anche senza l’intervento di agenzie o altri intermediari.
La stessa cultura dell’immagine, sempre più pervasiva sui social network, ha ulteriormente normalizzato l’idea che il corpo e la sessualità possano essere monetizzati, mentre l’attenzione costante del pubblico si traduce in una nuova forma di guadagno.
Normalizzazione?
In questo contesto, si registra anche un cambiamento nell’atteggiamento verso la sessualità e verso chi ne fa un mestiere.
Accanto ad una maggiore apertura mentale, sopravvivono forti contraddizioni: da un lato, il sex work viene rivendicato da alcuni movimenti come espressione di autodeterminazione e libertà individuale; dall’altro, la stigmatizzazione sociale continua a esercitare un’influenza significativa, soprattutto in paesi dove le leggi restrittive rendono chi intraprende questa attività più esposto a rischi e abusi.
Dietro la retorica della libertà, può nascondersi in effetti un’estrema precarietà, poiché molte persone si avvicinano a questa professione spinte dalla mancanza di alternative concrete e senza reali tutele legali, economiche e sanitarie.
La presenza di disparità e discriminazioni sociali, a danno in particolare delle fasce più vulnerabili della popolazione, accentua ancora di più la vulnerabilità di chi lavora nel settore, soprattutto quando opera in un contesto privo di regolamentazioni efficaci e di supporto adeguato.
Nuova illusione di Libertà?
Il fenomeno va inoltre inquadrato alla luce di un paradosso culturale: se da una parte si assiste a una crescente attenzione ai temi dei diritti e della sessualità, dall’altra permangono norme morali che, a livello pratico, penalizzano o marginalizzano chi sceglie di lavorare con il proprio corpo.
I media e l’industria dell’intrattenimento, pur condannando ufficialmente lo sfruttamento sessuale, spesso sfruttano l’appeal legato a immagini e contenuti espliciti per catturare l’attenzione del pubblico, contribuendo alla spettacolarizzazione del sex work. Complessivamente, l’espansione del lavoro sessuale riflette molteplici aspetti delle società contemporanee, dalla cultura dell’economia dell’attenzione alla necessità di trovare fonti di sostentamento alternative, fino al dibattito sui diritti e la protezione delle persone che scelgono — o sono costrette — a entrare nel settore.
La corsa all’oro e i guadagni (presunti) facili
La narrazione più diffusa racconta di un mercato in forte espansione dove “basta un profilo online” per iniziare a guadagnare in modo sostanzioso.
La realtà è che soltanto una percentuale ridotta di account riesce a diventare davvero solida nel tempo: c’è un sovraffollamento di aspiranti star e, come spesso accade, chi arriva in cima alla piramide è un’élite. Gli altri restano nell’ombra di una giungla competitiva, che consuma energie e richiede investimenti di tempo e denaro (e spesso di vita personale) senza restituire i profitti sperati.
Insomma, anche qui, in questo settore dove parrebbe che serva solo mostrare il corpo le piattaforme si rivelano una illusione, un grande inganno.
Sex worker: un mestiere o un’illusione?
C’è chi lo definisce “il lavoro più antico del mondo” e non possiamo negare che la vendita di servizi erotici o di contenuti sessuali abbia sempre fatto parte della storia umana. Ciò che sembra però cambiato è la normalizzazione di questa attività come se fosse la più semplice delle scelte, quando in realtà richiede:
- Strategie di marketing: costante presenza sui social, studio di algoritmi, creazione di contenuti che attirino attenzione e followers.
- Disponibilità alla sovraesposizione: l’intimità diventa merce, e per mantenere il pubblico, in molti finiscono col promettere nuovi show, incontri, collaborazione con altri partner.
- Impegni relazionali ed emotivi: avere rapporti con più persone, spesso sconosciute o conosciute appena, per alimentare la “novità” e la “trasgressione” che fa aumentare i follower.
Chi intraprende questa strada tende a minimizzare i rischi, parlando di apertura mentale e libertà sessuale. La libertà è sacrosanta, ma a volte l’argomentazione del “contro il bigottismo” non tiene conto della complessità di un mestiere che può essere psicologicamente ed emotivamente molto pesante, nonché potenzialmente insicuro sotto diversi aspetti (salute fisica, stabilità economica, conseguenze reputazionali).
Il contesto: dove il merito non conta più
Oltre all’elemento individuale della scelta, esiste un contesto di sfiducia verso il lavoro tradizionale.
Chi sceglie percorsi di formazione, chi si prepara a lungo, spesso non trova poi un impiego adeguato a ripagare sacrifici e studi. Nella narrazione collettiva, chi fatica, chi paga le tasse, chi rispetta le regole, sembra essere considerato uno “sciocco” che “non ha capito come funziona il mondo”.
In una società che ha perso la bussola del merito e dell’onestà, la prospettiva di guadagni immediati attraverso contenuti espliciti su piattaforme online, o con il lavoro sessuale, appare a molti come l’unica via di fuga dal precariato. Ma è una via di fuga reale o una trappola?
Il ruolo dei social nel cambiamento dei valori
I social hanno contribuito in modo significativo a ridefinire il concetto di normalità, assottigliando i confini tra vita privata e pubblica l’onlife, tra morale e desiderio di trasgressione, tra professionalità e improvvisazione.
Oggi viviamo immersi in una bolla in cui tutto viene monetizzato e dove l’attenzione stessa (like, cuoricini, iscrizioni a pagamento) diventa moneta di scambio. In questo contesto, l’esibizione del corpo e dell’intimità sembra una scorciatoia facile per molti, un riflesso di una società satura di stimoli e bramosa di novità continue.
Dalla normalizzazione al pericolo di illusione
Il passaggio in cui il sex work viene venduto come “soluzione alla crisi del lavoro” è delicato:
- Sovraesposizione dei corpi: più cresce l’offerta, più bisogna spingersi oltre, cercare contenuti sempre più estremi, nuovi partner, nuove sfide.
- Effimero riconoscimento sociale: finché i like arrivano e i followers aumentano, sembra una favola. Ma gli algoritmi cambiano, il pubblico si sposta e le “nuove leve” possono catturare più attenzione.
- Conseguenze future: non tutti riflettono su come questo materiale resterà online per sempre, con possibili ripercussioni su relazioni personali, reputazione, opportunità di lavoro.
In un mondo dove “merito” è una parola sbiadita, chi “si ingegna” per fare soldi rapidamente sembra più furbo di chi rispetta le regole. Ma cosa accade quando il mercato satura e restano fuori dai giochi i meno “performanti”? E quando, invecchiando o cambiando idea, ci si ritrova senza un vero curriculum o un patrimonio economico sufficiente a vivere serenamente?
Verso una riflessione più critica
Il problema non è condannare moralisticamente chi sceglie di vendere contenuti sessuali online: la libertà individuale va difesa.
Il vero nodo è chiedersi come mai così tante persone, in una società che si definisce avanzata, si sentano spinte a investire il proprio futuro in un settore così precario, esposto e non sempre redditizio.
È lecito, anzi doveroso, domandarsi se dietro l’ostentata etichetta di “apertura mentale” non si celi, talvolta, la semplice mancanza di alternative migliori, di prospettive gratificanti, di equo riconoscimento di competenze e professioni.
Al di là del dibattito su moralità e bigottismo
L’esplosione di piattaforme e “mestieri” legati all’industria del sesso riflette uno scenario sociale complesso, in cui la rapidità e la presunta facilità di guadagno sembrano l’unico appiglio per molti. Tuttavia, dietro la superficie patinata, c’è la precarietà: lavorare con il proprio corpo e con la propria intimità comporta rischi psicologici, sociali ed economici che vengono spesso sottovalutati.
Al di là del dibattito su moralità e bigottismo, occorre chiedersi se non stiamo svendendo la dimensione più profonda delle relazioni umane per una manciata di like e di denaro, in un mondo dove chi lavora con serietà e paga le tasse viene troppo spesso schernito, e in cui il merito e l’onestà sono per molti aspetti disincentivati.
Non è solo questione di scandalo o di presunta liberalità: è una questione di modelli culturali, opportunità economiche, giustizia sociale e prospettive di futuro. E forse, prima di normalizzare il fenomeno, dovremmo chiederci se la nostra società non meriti di meglio.