Sai cos’è l’indifferenza collettiva? Quando ero ragazzo e studiavo la Seconda Guerra Mondiale, non riuscivo a capacitarmi di come fosse stato possibile che milioni di persone venissero deportate, rinchiuse e uccise. Mi chiedevo: com’è potuto accadere sotto gli occhi di tutti?

Qualcuno mi rispondeva che allora non si sapeva, che l’informazione non era così capillare come quella di oggi.

Poi, anni dopo, ho visitato il campo di concentramento di Dachau, ho camminato tra i resti e i silenzi pesanti della memoria. All’interno del museo è spiegata la quotidianità dei prigionieri. E lì ho capito. Si sapeva. Tutti sapevano. I detenuti entravano e uscivano dai campi per andare a lavorare. La Germania era disseminata di campi di lavoro. Non in tutti i campi si uccideva. Ma si trattava di strutture comuni in ogni città. I treni passavano davanti alle case. Gli odori, i racconti, le assenze gridavano più forte del silenzio.

La verità era lì, visibile, eppure ignorata. Volontariamente. È qui che nasce l’ indifferenza collettiva: quando vediamo, sappiamo, ma scegliamo di non agire.

Storia diversa, stessi meccanismi

Oggi la Storia si ripresenta. Non nella stessa forma, ma con gli stessi meccanismi.

Cambiano gli attori, i nomi, le bandiere. Cambiano i confini. Chi un tempo era vittima ora è carnefice.

Ma la dinamica è identica.

Anche oggi si giustifica l’ingiustificabile. Anche oggi qualcuno parla di sicurezza, di difesa, di ritorsione, di necessità. Anche oggi si costruiscono muri, si cancellano volti, si chiudono occhi.

L’indifferenza oggi: tra smartphone e streaming

Oggi, in un mondo dove tutto è connesso, la Storia sembra ripetersi nei suoi ingranaggi. Una guerra non arriva mai all’improvviso: si prepara giorno dopo giorno. A piccoli passi. E noi li seguiamo, spesso inconsapevolmente.

Ci abituiamo a un bombardamento in più, a un bambino sotto le macerie, a una parola in meno, a un diritto in fumo. Guardiamo tutto in diretta, senza alzarci dal divano. Non ci viene chiesto di scegliere da che parte stare. Ci viene chiesto solo di guardare. E noi guardiamo. On demand o in streaming.

Siamo spettatori delle tragedie umane mentre scrolliamo i social, mentre ceniamo, mentre siamo in spiaggia. Connessi e soli. Partecipiamo con un like o un commento indignato, e poi andiamo oltre. Ogni immagine, sempre più cruda, che vediamo ci colpisce un po’ meno. Ogni notizia in più ci anestetizza. È il meccanismo più pericoloso dell’indifferenza collettiva: quello che ci fa sentire estranei, inermi, ma in realtà ci rende complici.

Complici silenziosi della tragedia

Essere spettatori passivi, oggi, è un atto politico. Non è necessario premere un grilletto per essere carnefici: basta scegliere di non vedere, di non approfondire, di non ascoltare.

Quante volte abbiamo pensato che qualcosa fosse lontano, circoscritto ad altre situazione. Che qualcosa non ci riguarda?

Anche la guerra sembra lontana, ma ogni giorno si avvicina. Non ce ne accorgiamo perché siamo distratti, assuefatti dalla nostra quotidianità.

Viviamo nel periodo di pace più lungo della storia europea: ottant’anni. È un privilegio senza precedenti. Ma proprio perché non conosciamo la guerra, ci stiamo abituando all’idea che possa tornare. Ogni piccola rinuncia, ogni censura accettata, ogni parola ignorata è un passo verso l’abisso.

80 anni di pace

Bisogna ammettere che non siamo solo spettatori. Siamo anche complici. Anestetizzati dalla comodità, distratti dalle notifiche, chiusi nella nostra bolla di apparente normalità. Come durante il Covid, quando pensavamo che si trattasse di qualcosa lontano, nell’indifferenza collettiva. “È in Cina”, ci dicevamo. Poi è arrivato. Così anche la guerra la immaginiamo lontana, eppure ci sfiora ogni giorno.

Ottant’anni di pace sono un privilegio mai esistito prima nella storia umana. E forse per questo non sappiamo più cosa significhi la guerra. Ma la stiamo imparando di nuovo, senza volerlo. La stiamo interiorizzando come un rumore di fondo. E senza accorgercene, diventiamo parte della macchina. Non serve un’arma per essere carnefici. Basta il silenzio. Basta l’indifferenza.

Conoscere la Storia per non subirla

La Storia non ci chiede di conoscere il passato per nostalgia. Ce lo chiede per sopravvivenza. Perché ogni volta che dimentichiamo, ogni volta che ci diciamo “non può accadere di nuovo”, è proprio lì che inizia ad accadere di nuovo.

La Storia è una bussola, non ci insegna solo per evitare gli errori del passato, ma per riconoscerne il ritorno. Non identico, ma simile. Oggi la guerra si giustifica con parole nuove: sicurezza, difesa preventiva, superiorità morale. I carnefici cambiano volto. A volte indossano la divisa della vittima. Ma i meccanismi sono sempre gli stessi: disumanizzare l’altro, giustificare l’inaccettabile, rendere normale ciò che è disumano.

Chiunque abbia memoria, chiunque abbia studiato, chiunque abbia anche solo camminato nei luoghi della Storia non può far finta di non vedere. Eppure, lo facciamo. Perché guardare davvero fa male. Perché costa. Perché ci rende responsabili.

Ma è proprio da questa responsabilità che dobbiamo ripartire. Per non restare a guardare. Per non essere complici. Per non diventare, ancora una volta, una collettività indifferente.