La consultazione per i referendum dell’ 8 e 9 giugno mette in gioco cinque quesiti abrogativi che toccano il lavoro e la cittadinanza.

Il primo punta a ripristinare per tutti i licenziamenti illegittimi, l’obbligo di reintegro che vigeva prima della riforma del 2015. In pratica si chiede di tornare all’ articolo 18 come lo era in passato.

Il secondo vorrebbe togliere il tetto di sei mensilità al risarcimento dovuto ai dipendenti delle piccole imprese, lasciando al giudice la libertà di quantificare il danno, caso per caso.

Il terzo obbligherebbe le aziende a indicare sempre la causale di un contratto a termine, anche quando la durata è inferiore a dodici mesi.

Il quarto amplierebbe la responsabilità solidale del committente negli appalti, rendendolo corresponsabile, insieme ad appaltatore e sub-appaltatore (e tutti gli appaltatori a cascata), degli infortuni sul lavoro.

Il quinto, infine, dimezzerebbe da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale richiesto agli stranieri extracomunitari per ottenere la cittadinanza.

I cinque quesiti in sintesi

Scheda.TemaCosa verrebbe abrogatoEffetto principale se vincesse il
1. Scheda verdeLicenziamenti e Jobs ActContratto a tutele crescenti del 2015Torna l’obbligo di reintegro per tutti i licenziamenti illegittimi, come prima dell’art. 18 riformato.
2. Scheda arancioneLicenziamenti piccole imprese Tetto massimo di sei mensilità di indennizzoIl giudice potrebbe stabilire risarcimenti più alti senza limiti predefiniti.
3. Scheda grigiaContratti a termine Eliminazione delle “causali” sotto i 12 mesiL’azienda dovrebbe indicare sempre la motivazione del contratto a tempo.
4. Scheda rosaSicurezza negli appaltiEsclusione della responsabilità solidale del committenteIl committente risponderebbe insieme ad appaltatore/subappaltatore per infortuni.
5. Scheda giallaCittadinanzaSoggiorno minimo di 10 anni per gli extracomunitariRequisito dimezzato a 5 anni di residenza legale.

Fonte Internazionale

Perché i quesiti potrebbero non superare il referendum?

La ragione più immediata è aritmetica: serve che voti la metà più uno degli aventi diritto.

Negli anni ’70 e ’80 il Paese sfiorava sempre l’80 % di affluenza. Oggi, grazie al clima di sfiducia verso la Politica, la tendenza è all’opposto. Nel 2022, sui cinque quesiti sulla giustizia, soltanto un elettore su cinque è andato a votare, segnando un minimo storico.

A ciò si aggiunge la “politica” di alcuni leader che invitano apertamente a disertare le urne, contando sul fatto che un referendum senza quorum equivale a un referendum perso dagli organizzatori. C’è poca chiarezza istituzionale. Ancora peggio le più alte cariche istituzionali invitano a non andare a votare o evitano, a prescindere, di parlarne.

L’eco mediatica, per di più, è modesta. I programmi che spiegano le ragioni del si, vengono fatti alle 10 del mattino, quando a guardare i programmi sono persone anziane o che non potrebbero comunque andare a votare.

E infine i quesiti sono privi di slogan facili, richiedono un certo sforzo di comprensione. Che in pochi, pare, vogliano fare.

Odio verso il prossimo

Quello che però io leggo sotto la superficie numerica è un meccanismo psicologico più becero o raffinato, a seconda dei punti di vista, che si è diffuso in questo nostro becero mondo.

Spesso, il nostro odio, il nostro giudizio di critica, non si indirizza verso chi sta molto più in alto o molto più in basso, bensì con chi ci precede o segue di un solo passo.

Insomma, nella scala sociale del nostro mondo, non odiamo chi è distante o molto superiore a noi. Ma ce la prendiamo con chi sta “mezzo gradino” sopra o sotto.

Il mondo del lavoro di oggi

Lo sappiamo, che il mondo del lavoro oggi è una giungla. Tranne qualche isola felice, che si fatica a costruire, non ci si può fidare di tante persone.

È così che, ad esempio, il dipendente a tempo indeterminato guarda con sospetto il collega precario: se quest’ultimo ottiene nuove tutele, il reintegro, la causale obbligatoria, la sua condizione “quasi uguale” diventa un potenziale concorrente. Allo stesso modo il proprietario di una piccola impresa teme che l’eliminazione del tetto ai risarcimenti o la responsabilità solidale negli appalti carichi la propria azienda di oneri che finora lo distinguevano, in positivo, da chi sta appena al di sotto nella scala economica.

O ancora, nel caso della cittadinanza, l’italiano di nascita difficilmente percepisce il magnate straniero come minaccia. Elon Musk, sudafricano, emigrato, con cittadinanza canadese naturalizzato statunitense, non è considerato uno straniero da nessuno in nessuna parte del mondo. Il vicino di casa, o di quartiere, arrivato da qualche anno, e dunque “a un mezzo gradino di distanza” che può sembrare in procinto di “rubare” gli stessi diritti è considerato straniero. E sarà sempre un forestiero qualunque sia il suo contributo alla comunità.

La dinamica della partecipazione

Questa dinamica mina la partecipazione in diversi modi.

Primo, riduce l’identificazione. Il quesito riguarda qualcuno simile ma non identico a noi, e dunque la spinta a uscire di casa e votare si affievolisce.

L’astensione è nobilitato dal fatto che non votare è un atto difensivo, il modo più semplice per non “regalare” diritti al quasi-pari.

E infine non c’è neanche un nemico comune su cui convogliare l’indignazione collettiva, ma solo piccoli conflitti fra gruppi contigui che frammentano l’opinione pubblica.

FattoreOdio verso il prossimoEffetto sul quorum
Personalizzazione bassaI quesiti tutelano categorie vicine ma non identiche a noi: il lavoratore a tempo determinato o l’extracomunitario integratoMancanza di identificazione: motivazione debole ad andare alle urne
Narrativa polarizzanteChi invita a non votare sfrutta la logica “meglio non dare un vantaggio a chi ci tallona”L’astensione diventa gesto difensivo legittimo, non diserzione civica
Assenza di nemico comuneNon c’è un nemico chiaramente definito; la contesa è interna al mondo del lavoro e fra residentiL’energia emotiva non si aggrega su un bersaglio condiviso
Informazione frammentataOgni gruppo parla alla propria “tribù” senza uscire dalla bollaSi rafforza la micro-identità, non la mobilitazione di massa

Una nuova narrazione?

Superare questo muro richiederebbe un cambio di narrazione. Servirebbero messaggi capaci di mostrare che rafforzare i diritti del lavoratore precario finisce per alzare anche il valore del lavoro stabile, o che accelerare il passaggio alla cittadinanza produce comunità più coese e sicure. Occorrerebbe poi una coalizione ampia tra sindacati, piccole imprese virtuose, associazioni per i diritti civili, per rompere la logica del “noi contro noi”.

Infine, servirebbe una campagna informativa capillare, capace di raggiungere chi fatica a districarsi fra gli aspetti tecnici.

Finché però ciascuno difenderà il suo mezzo gradino, i referendum resteranno ostaggi di una montagna aritmetica e psicologica.

Ogni mancata partecipazione, ogni quorum sfumato, cementa la sfiducia negli strumenti di democrazia diretta e, paradossalmente, rende ancora più radicato quel micro-conflitto quotidiano che ci fa alzare lo sguardo solo fino al pianerottolo, nostro prossimo, mai fino all’attico. Anche quando il problema sta proprio lì sopra.

Nodi reali di giustizia sociale

I referendum dell’8 e 9 giugno toccano nodi reali di giustizia sociale, ma entrano in un terreno psicologico minato: quando le disuguaglianze sembrano insuperabili, l’attenzione si sposta sulle guerre tra poveri.

E ogni referendum che fallisce per astensione diventa, paradossalmente, un nuovo mattoncino di sfiducia. La perfetta conferma che, alle masse, basta poco per dividersi e basta pochissimo per odiarsi.