Ho già parlato di umanesimo digitale che è, prima di tutto, un modo di vedere la tecnologia come uno specchio dell’essere umano, non come un luogo dove l’umanità si dissolve. L’umanesimo digitale è un ripensare gli strumenti di comunicazione, di archiviazione e di relazione, con l’obiettivo di restituire il senso profondo delle parole, dei concetti e delle storie che da sempre accompagnano la nostra evoluzione.
Non si tratta di sostituire i valori tradizionali con le novità del mondo online, ma di far sì che quei valori diventino la bussola che orienta l’innovazione, trasformandola in un bene condiviso e in un’occasione di dialogo.
Interpretare il rapporto tra tecnologia e umanità
Si tratta di un modo di interpretare il rapporto tra tecnologia e umanità, un ponte tra passato e futuro, un luogo dove la competenza tecnica incontra la consapevolezza del significato profondo delle parole, delle relazioni e delle storie che ci accompagnano da secoli.
Ho iniziato questo percorso studiando come organizzare e rendere fruibili i contenuti online, vestendo i panni dell’architetto dell’informazione e imparando a dare forma a siti web, chatbot e assistenti vocali.
Eppure, più approfondisco l’uso della tecnologia, più mi rendo conto che non è possibile separare l’aspetto “tecnico” dalla visione umanistica che da sempre mi affascina.
Chi è l’umanista digitale?
Quando parlo di un umanista digitale, mi riferisco al percorso classico che ho utilizzato come strumento per creare ponti con i linguaggi moderni e con le più recenti tecnologie.
La linguistica, la letteratura e la filosofia diventano dunque le fondamenta su cui costruire nuovi modi di comunicare, di informare e di progettare esperienze che tengano conto sia delle esigenze delle persone, i bisogni, sia del potenziale offerto da software, algoritmi e interfacce conversazionali.
Diciamo che è un lavoro di sintesi, dove il passato non è un semplice ricordo, ma una fonte inesauribile di ispirazione, un bagaglio prezioso che ci aiuta a comprendere meglio anche la complessità delle reti neurali e del machine learning.
L’umanista digitale non è un nostalgico del passato, ma un esploratore del presente che usa il passato come mappa e bussola.
Da una parte, si confronta con le nuove tecnologie, cerca di comprenderle e di metterle al servizio di un progetto più grande; dall’altra, non dimentica che ogni innovazione ha conseguenze, non solo economiche ma anche umane, culturali, psicologiche.
Conservare questa visione globale è un atto di responsabilità: significa non accettare che il progresso diventi alienazione, ma insistere perché sia un volano di crescita condivisa.
Come architetto dell’informazione
Come architetto dell’informazione, cerco sempre di organizzare i contenuti in modo che siano immediatamente comprensibili e fruibili.
Questo ruolo mi offre, ogni giorno, la possibilità di approfondire la struttura del web, di studiare come le persone interagiscono con i vari touchpoint e di riflettere sul valore semantico di ogni singolo pezzo di testo, di ogni etichetta e di ogni elemento di navigazione.
Eppure, più imparo a rendere l’informazione “a misura di persona”, più mi rendo conto di quanto sia importante la dimensione del linguaggio, non solo come contenitore di dati, ma come specchio della nostra identità collettiva e individuale.
Per molti versi, mi ritrovo a metà strada tra un filologo e un “conversational designer”: continuo a studiare il linguaggio, cerco di capire come renderlo utile e chiaro in un’interfaccia digitale, ma allo stesso tempo continuo a nutrire un amore autentico per la letteratura, la filosofia e la storia.
Non si tratta di rinunciare alla tradizione per abbracciare la modernità in maniera acritica.
Al contrario, è la tradizione a guidare la mano quando progettiamo soluzioni innovative che dovrebbero rispondere a esigenze reali, umane, e non soltanto a parametri di mercato o algoritmi.
Chatbot e assistenza vocale
È così che, in modo quasi naturale, sono passato a occuparmi di chatbot e assistenti vocali, dedicandomi al cosiddetto conversational design. In quest’ambito, l’architettura dell’informazione non è confinata a una pagina web, ma si sposta all’interno di un dialogo, uno scambio di battute che va progettato come se fosse una piccola rappresentazione teatrale, in cui l’utente si aspetta una risposta rapida, coerente e, nel migliore dei casi, empatica.
Questo passaggio mi ha riconsegnato le chiavi delle mie vecchie passioni: la linguistica, la grammatica, la semantica e persino l’amore per i classici greci e latini.
Riscoprire Platone, Aristotele, Cicerone e gli autori dell’epica antica è diventato un continuo rimando tra passato e futuro. Le forme verbali, le strutture retoriche e i riferimenti culturali di quei testi intramontabili hanno finito per incontrare gli algoritmi di riconoscimento vocale e i motori di intelligenza artificiale, in un dialogo sorprendente tra epoche lontanissime e al tempo stesso vicine.
Umanista dell’informazione
Da umanista dell’informazione, da un lato, continuo a fare ciò che ho sempre fatto: mettere ordine nei contenuti e strutturare esperienze di navigazione orientate alle persone. Dall’altro, mi pongo l’obiettivo di ricordare a tutti che dietro ogni stringa di codice c’è un pensiero, una storia, un modo di essere.
L’informazione, se non si connette in modo sincero alla nostra essenza umana, diventa meramente tecnica, sterile, priva di un orizzonte di senso.
Perciò l’umanista dell’informazione è quel professionista che, pur muovendosi nel mondo del digitale e dell’innovazione, non smette mai di considerare l’uomo come principio e fine di ogni progetto.
La mia identità professionale
A volte, quando spiego il mio lavoro, noto che manca un contesto culturale in cui sia chiaro cosa significhi davvero progettare un sito web o un’interazione vocale o ragionare sulla semantica delle etichette di navigazione.
Spesso si crede, nel migliore dei casi, che chi lavora nel web faccia sempre la stessa cosa: scrivere codice, occuparsi di grafica o, al massimo, fare marketing. Nel peggiore dei casi, si pensa che chi lavora nel web sappia aggiustare PC, configurare qualsiasi cosa connessa con internet. Eppure, esiste un intero universo di ruoli, competenze e sensibilità che si muovono tra questi poli.
È uno spazio in cui il dialogo tra scienze umane e tecnologia si fa vivo, dove la tradizione non è un freno, ma una sorgente di idee e di visioni per comprendere meglio chi siamo e dove vogliamo andare.
È in questa continua integrazione tra passato e futuro, tra retorica classica e intelligenza artificiale, che sento di aver trovato la mia identità professionale.
Non è un abbandono di tutto ciò che ho fatto in precedenza, bensì un’evoluzione, un nuovo sguardo che rilegge il percorso compiuto e ne svela il punto di arrivo: un umanesimo digitale attento alle radici storiche, ma ancora più proiettato verso l’avventura della contemporaneità.
Perché il vero progresso, a mio avviso, non è mai una rottura con ciò che è stato, ma la sua trasformazione, un po’ come un vecchio manoscritto che viene digitalizzato e diventa, in ogni singolo pixel, ancora più vivo e universale di prima.
Recuperare il valore della parola
Non possiamo ignorare che viviamo in un’epoca in cui la violenza, inclusa quella verbale, sembra trovare terreno fertile proprio nelle nuove forme di comunicazione. La rapidità con cui i contenuti si diffondono sul web, la superficialità con cui spesso vengono giudicati o condivisi, e la tendenza a creare schieramenti netti in cui non c’è spazio per la sfumatura, ci mettono di fronte a un’urgenza: recuperare il valore della parola e il rispetto per chi sta dall’altra parte dello schermo.
È qui che l’umanista digitale ritrova la sua missione originaria, perché da sempre coltiva la comprensione del linguaggio come strumento di connessione umana, di scoperta reciproca e di costruzione di una società più empatica.
Oggi, poi, l’espansione dell’intelligenza artificiale apre un capitolo ancora più complesso. Algoritmi capaci di apprendere, macchine che simulano il linguaggio, sistemi di riconoscimento vocale e visivo sempre più raffinati: tutto questo può portare grandi benefici, ma anche alimentare disuguaglianze, se non mantenuto sotto lo sguardo vigile di chi difende la dimensione etica e umana del progresso.
L’umanista digitale, mettendo al centro la persona e la sua dignità, si propone come una bussola in grado di orientare le scelte tecnologiche verso il bene comune, anziché verso il mero profitto o la ricerca di efficienza a ogni costo.
Essere umanisti digitali, quindi, non significa arroccarsi in un passato idealizzato, ma divenire custodi di un sapere capace di guidare la tecnica verso fini più elevati.
Il mondo ha bisogno di figure che sappiano coniugare la consapevolezza del passato con l’apertura al futuro, e in questo contesto l’umanista si fa ponte, imboccando la strada dell’umanesimo digitale: un percorso dove l’empatia si somma alle competenze scientifiche, e dove la riflessione etica affianca l’innovazione, con l’obiettivo di ricordarci chi siamo e dove vogliamo andare.
Umanesimo digitale
L’umanesimo digitale, lo ripeto, è prima di tutto uno sguardo. È la capacità di vedere, in una riga di codice, i valori che vogliamo difendere e il mondo che desideriamo costruire. È l’attenzione per ogni parola, che non è più soltanto un insieme di caratteri ma un ponte tra chi scrive e chi legge, tra chi parla e chi ascolta.
Chi come me ha trascorso anni a studiare la grammatica, il lessico e le strutture della comunicazione, scopre poi che dietro ogni assistente vocale o dietro ogni sito ben progettato ci sono gli stessi principi su cui si è fondata l’arte retorica millenni fa: la necessità di creare un canale, di costruire fiducia, di spiegare con chiarezza e di aprire la mente a nuove prospettive.
Un lavoro che cambia
Il mio lavoro cambia di continuo, così come si trasforma l’ecosistema digitale. Un giorno progetto un sito web professionale, un altro mi perdo nelle letture di Platone, e un altro ancora mi confronto con strumenti di machine learning e reti neurali.
Ogni nuova sfida mi fa tornare alla domanda fondamentale: come possiamo far dialogare l’essere umano con la macchina senza perdere di vista l’umanità stessa? È questa la bussola che mi orienta e che, credo, orienti anche chiunque si riconosca in un approccio umanistico al digitale.
La mia professione intorno all’architettura dell’informazione come intelligenza disciplinare mi ha insegnato a mettere ordine nelle idee, a prevedere i possibili bisogni di chi naviga un sito o parla con una chatbot, a non dare nulla per scontato nella strutturazione dei contenuti.
Ma nello stesso tempo sento l’esigenza di ricollegarmi alle radici della mia passione: la parola come veicolo di senso.
Aver preso questa consapevolezza è come aver preso tutto ciò che ho appreso sul design dell’esperienza utente e averlo inserito in un contesto più ampio, dove la parola “umanista” non allude a un mero bagaglio di studi classici, ma alla costante attenzione per la dimensione etica ed empatica del nostro agire tecnologico.
Un approccio da umanista digitale
La definizione di “umanista digitale” può risultare comoda, perché le persone hanno bisogno di incasellare in qualche modo e di capire in fretta come puoi esser loro utile. Ma preferirei che i miei interlocutori vedessero prima di tutto l’approccio che sta dietro le parole.
Un approccio che non si limita a implementare una soluzione tecnologica, ma cerca di capire il perché di quella soluzione, quale cambiamento produce e come può influenzare la vita delle persone.
Forse è proprio questa la sfida più grande: trasmettere la complessità di un lavoro che si evolve ogni giorno, senza scorciatoie semantiche, e far sentire quanto sia importante il ruolo del pensiero critico anche nel mondo del web e dell’intelligenza artificiale.
Se qualcuno mi chiede di lavorare a un progetto, vorrei che capisse prima di tutto la mia volontà di far dialogare la tecnica con il senso.
Non sempre è un compito facile, perché nella frenesia del mercato e dell’innovazione i tempi per la riflessione sembrano ridursi costantemente. Eppure, non trovo altro modo migliore di procedere: ritengo che ogni sito web, ogni interfaccia, ogni chatbot, ogni sistema di intelligenza artificiale sia intriso di linguaggio e di storie, e che il compito di chi progetta sia custodirne la componente umana, arricchirla e orientarla verso il bene di tutti.
L’umanesimo digitale è un percorso
L’umanesimo digitale è un percorso, un viaggio costante che ci invita a confrontarci con le sfide di oggi, senza dimenticare ciò che ieri ci ha reso ciò che siamo.
In questo intreccio di passato e futuro, di retorica classica e algoritmi, credo che la figura dell’umanista digitale continui a ricordarci il valore della comprensione reciproca e dell’empatia.
Perché se non siamo umani nel rapporto con la tecnologia, rischiamo di smarrire la nostra più grande ricchezza: la capacità di dare un senso a ciò che facciamo, di costruire relazioni autentiche e di diventare, a nostra volta, i narratori di un presente che merita di essere ascoltato.