Siamo tutti connessi. Non basta. Dobbiamo essere sempre raggiungibili. La connessione non è più solo un diritto,

è un dovere, come fosse legge.

Se non si risponde subito al telefono si viene cancellati dalla realtà. Se guidi, se preferisci la mail per delle relazioni con degli sconosciuti, se hai i tuoi tempi di detox settimanali, non fai parte della comunità.

Insieme ma soli

Questa estate ho letto i libri di Sherry Turkle e sul blog riprenderò spunti e riflessioni che sono scaturiti dalla lettura. Chi mi segue sa che sono favorevole alla connessione, tratto gli assistenti vocali dando ampia fiducia a questa tecnologia.

Ma come ho sempre ripetuto, l’uso di uno strumento richiede una sana consapevolezza per non essere usati.

E la consapevolezza nasce anche dall’ascolto di pareri preoccupati. Tra questi penso ci sia Sherry Turkle, con il suo libro, Insieme ma soli. Un titolo molto esplicativo e che mi pare ponga un problema vero della nostra contemporaneità.

Condivido dunque con voi alcune parti del libro, parafrasando quanto scritto dalla psicologa docente di Sociologia della scienza e della tecnologia del MIT di Boston. Ovviamente invitando alla lettura diretta di tutto il libro. “Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri.”

Alla gente piace restare connessi

Alla gente piace la connessione. Essere connessi significa, per molte persone, sentirsi vicini.

La rivoluzione culturale dei dispositivi mobili ha cambiato il mondo, il lavoro, l’istruzione, il sapere nelle sue declinazioni, le relazioni. I dispositivi mobili connessi ad internet hanno cambiato il modo in cui ci corteggiamo e viaggiamo. Il mobile ha quasi del tutto eliminato la noia. Durante gli spostamenti, o nelle sale di attesa, non ci si annoia più come una volta, quando la noia si ammazzava parlando con gli altri.

La connettività trasforma qualunque luogo, foss’anche il più isolato del mondo civilizzato; la connessione trasforma quel luogo in un centro di apprendimento e/o di attività economica.

Sempre connessi

Sherry Turkle afferma

La connettività offre nuove possibilità di sperimentazione della nostra identità, dona la sensazione di avere accesso ad una zona franca in cui gli adolescenti fanno quello che hanno bisogno di fare: innamorarsi e disinnamorarsi di persone e idee. la vita reale non sempre fornisce questo genere di spazio, internet si.

Le persone, sono tutte vicine, ad un tasto di distanza.

Oggi la connessione non dipende dalla distanza che ci separa gli uni dagli altri, ma dal fatto che si disponga o meno di una tecnologia per le comunicazioni.

E questa tecnologia non può mancare all’interno del proprio gruppo sociale.

Stare da soli comincia a sembrare una precondizione allo stare insieme, perché è più facile comunicare se ci si può concentrare, senza interruzioni, sul nostro schermo.

In questo nuovo regime, una stazione ferroviaria, un aeroporto, un bar o un parco non sono più un luogo pubblico, ma un luogo di incontro sociale: la gente si riunisce ma ha smesso di parlare.

Zona macchina e Solitudini

Sempre più spesso, la solitudine è vista ed è vissuta come un momento di disagio. Se non siamo in continua attività nel mondo reale, così, come un cane che si morde la coda, preferiamo rivolgerci ai nostri dispositivi anziché alla nostra interiorità.

I dispositivi mobili connessi alla rete internet ci tengono all’interno della cosiddetta “zona macchina”. L’antropologa Natasha Dow Schull ha descritto la “zona macchina” come uno stato mentale in cui l’individuo non sa più dove comincia la persona e dove finisce la sua condizione. Anche se a dire il vero l’espressione nasce per descrivere la relazione dei giocatori d’azzardo con le slote machine. Relazione che ormai abbiamo un po’ tutti se stiamo tutto il giorno davanti ad uno schermo o teniamo in mano un dispositivo mobile.

Zona Fecebook

Alexis Madrigal allarga questo concetto alle piattaforme sociali e parla di “zona Facebook”, come di una versione morbida della “zona macchina”. Le piattaforme ci invitano ad entrare in un flusso dove ci viene chiesto di usare un po’ del nostro cervello, ma senza un grosso sforzo da parte nostra. Ogni azione è alla nostra portata, non ci stanca, ci mantiene attenti ma senza fatica intellettuale.

In questo stato mentale non esiste alcuna crescita. Ma si può vivere uno stato di coercizione. Uscire dalla piattaforma, infatti, può diventare una sofferenza.

Secondo alcuni studiosi addirittura la permanenza in questo stato mentale serve sempre più ad allontanare attività che richiedono una attività più impegnativa da parte nostra nella vita reale. Meglio continuare a guardare video ripetuti all’infinito piuttosto che leggere un libro, andare a lavare lo scooter, finire i compiti di scuola.

La navigazione come forma di solitudine

Se oggi pensiamo ad un momento di solitudine questo è strettamente legato alla compagnia del nostro dispositivo mobile. Per navigare online abbiamo bisogno di solitudine.

Lo smartphone è un meccanismo di sicurezza. Riflettere su noi stessi, sulle nsotre esperienze richiede uno sforzo emotivo a cui ci stiamo disabituando. Il flusso di pensiero di un millennial o della Generazione Z è completamente diverso dal flusso di pensiero dei nostri nonni, alla loro stessa età.

Non era questo il sogno

Il sogno dei primi scienziati informatici, così come degli sviluppatori di bot, non era esattamente questo. Il sogno era quello di creare delle macchine capaci di svolgere il lavoro veloce e di routine, in modo che le persone avessero avuto il tempo di svolgere il lavoro lento e creativo. Le macchine dovrebbero essere un supporto per lasciarci più tempo. I chatbot dovrebbero rispondere a domande semplici per permettere agli operatori di rispondere alle domande complesse.

Così come la lavatrice ha permesso a milioni di donne di avere il tempo di leggere per se stesse e per i loro figli, così smartphone, bot e intelligenza artificiale dovrebbe permetterci di essere innovativi e creativi. Ma l’innovazione, come la creatività, non arriva da una vita frenetica e stressante, ma da ritmi lenti e a misura d’uomo.

Non dovremmo inseguire la tecnologia. Dovremmo semplicemente usarla.

Conversazioni con gli sconosciuti

Da qualche anno a questa parte quante conversazioni avete avuto con degli sconosciuti, in momenti di attesa?

In treno, per esempio, almeno durante il periodo pre covid, avete avuto conversazioni con altri passeggeri, per ammazzare il tempo? E vi è mai capitato di ascoltare qualche conversazione di altre persone al telefono? Ed è mai successo che la persona parlasse al telefono come se fosse solo?

Immagino che almeno a quest’ultima domanda avrete risposto positivamente. Perché avviene questo? Sherry Turkle risponde.

Quando qualcuno ha una conversazione al telefono in un luogo pubblico, il suo senso di riservatezza si basa sulla presunzione che chi lo circonda lo tratterà non solo come il perfetto sconosciuto quale è, ma come se proprio non ci fosse.

Le persone al telefono trattano gli altri come se non ci fossero. O a vederla dal lato opposto: sono le persone al telefono che si considerano assenti.

Perdere la connessione fisica

Sherry Turkle afferma che questo significa perdere la propria connessione fisica. E che sempre più preferiamo la connessione virtuale; connessione che ci suggerisce di poter creare la nostra pagina, il nostro posticino, dove tutto è familiare.

Oggi il nostro sogno meccanico è di non essere mai soli.

Sherry Turkle parla di un nuovo stato del sé, l’itself, ed ha il timore che la vita connessa ci incoraggi a trattare coloro che incontriamo online un po’ come trattiamo gli oggetti, ovvero in modo sbrigativo. Non lo facciamo per male o per cattiveria, ma in modo spontaneo. Siamo assediati, ogni giorno, da migliaia di mail, sms, messaggi e notifiche, più di quante ne riusciamo a gestire.

Lo stesso accade quando si scrive un post sui social, su Facebook, come su Twitter o su altre piattaforme sociali. Noi trattiamo gli individui, persino i nostri amici più veri, come un insieme. Gli amici, che si conoscano nella realtà o solo virtualmente, diventano dei fan.

Connessione con assistenti vocali e bot

In questa perdita di connessione fisica, conquistiamo un’idea di realtà diversa, una percezione della realtà completamente diversa rispetto al passato.

Se le persone, gli amici e i conoscenti diventano, sostenitori, ammiratori, tifosi, nella sostanza perdono il loro stato di persone. Diventano molto simili ad oggetti parlanti.

Dall’altro lato, in questa smaterializzazione e spersonificazione degli individui, acquistano una parvenza di umanità i bot e gli assistenti vocali. E gli oggetti parlanti, quelli che definiamo smart speaker, si avvicinano molto alla parvenza di persone.

Online inventiamo dei modi di stare con le persone che le trasformano in qualcosa di simile a degli oggetti.

E qui c’è un piccolo problema

Il sé che tratta una persona come una cosa rischia di vedersi nello stesso modo. È importante ricordare che quando consideriamo dei bot vivi abbastanza per noi, diamo loro una promozione. Se in rete ci si sente solo vivi abbastanza da essere macchine massimalizzatrici di email e messaggi allora si è stati retrocessi.

Connessi le relazioni cambiano

Le relazioni umane stanno cambiando. E leggendo Sherry Turkle, come altri autori critici verso le tecnologie, sembrerebbe che si auspichi un ritorno al passato. Come se il tempo analogico fosse stato privo di pericoli.

Ma è solo colpa della tecnologia e delle piattaforme che hanno tradito le promesse iniziali?

Non metto in dubbio che la relazione con il nostro smartphone stia diventando, per molte persone, patologico. La nostra “zona macchina” o “zona Facebook” coinvolge tutti, consapevoli e meno consapevoli. Il trattare gli amici come pubblico e fan è un fatto reale.

Un mondo connesso e complesso

Ma vorrei sottolineare la complessità di questo mondo e non vorrei che queste disfunzioni che possono sfociare nel patologico siano considerate pandemiche.

Perché se vero che questa relazione con i dispositivi mobili connessi è diffusa è anche vero che coinvolge una parte del mondo e non la sua interezza; riguarda persone che fanno parte di un dato ceto sociale, che svolgono un lavoro di un certo livello e che hanno determinate capacità economiche. Se è vero che alcuni dirigenti hanno bisogno di periodi forzati di detox, di disintossicazione dall’essere sempre raggiungibili, è pure vero che il non avere tempo da dedicare alla sostanza della Vita è considerato figo, cool, nella realtà.

Ritornerò, ritorneremo sul tema perché interessante. Ma c’è ancora chi vive in un mondo analogico, disconnesso, privo di internet. Non penso che questo mondo, che non ha accesso ad internet, sia migliore o che la disconnessione sia auspicabile.

Ripeto, viviamo in un mondo complesso. C’è una parte della società ricca che sta perdendo il contatto con la realtà? Ci sono famiglie che non parlano più? Forse bisogna recuperare spazi di intimità veri; forse è necessario ritornare all’ascolto reciproco.

E allora è necessario divulgare cultura digitale, analizzare i pericoli ed osservare i cambiamenti. A mio parere abbiamo la necessità e il bisogno di acquisire consapevolezza per usare gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. E restare umani, connessi con noi stessi e con gli altri essere umani.